Il sanitario che si limita semplicemente alla registrazione del consenso informato non è tenuto a studiare la cartella clinica, né a sindacare le scelte terapeutiche o chirurgiche, con la conseguenza che non assume alcuna posizione di garanzia nei confronti del paziente.
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Caso di studio
Un minore ricoverato, in conseguenza di sepsi e coagulazione intravasale disseminata, era sottoposto ad intervento chirurgico di lobectomia superiore sinistra da cui ne conseguiva il decesso.
Era contestata la colpa consistente in negligenza, imperizia, imprudenza ed inosservanza delle regole dell’arte medica, per aver omesso di sottoporre, prima di tale intervento, il minore a terapia antitubercolare, di valutare e considerare le possibili alternative terapeutiche e di informarsi compiutamente sulle specifiche condizioni del paziente, mediante lettura della cartella clinica e mediante coinvolgimento di specialisti infettivologi.
Il medico era stato assolto in Tribunale, con conferma della sentenza anche in Corte di Appello.
Cosa dice la Cassazione
La IVa sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 49774/2019, ha rigetto i ricorsi delle parti civili osservando che era corretta l’assoluzione adottata dal Tribunale ritenendo che non avesse assunto alcuna posizione di garanzia nei confronti del paziente in relazione alla scelta terapeutica rivelatasi fatale, non risultando provato il suo coinvolgimento nelle cure sanitarie prestate in suo favore e tenuto conto che l’intero approccio diagnostico e terapeutico era stato determinato dal direttore del reparto di pediatria; così come altrettanto corretta era la conferma dell’assoluzione della Corte di Appello in applicazione del principio di affidamento, in quanto le condotte omissive addebitate all’imputato non rientravano nella sua competenza specifica, potendo e dovendo la terapia empirica antitubercolosi essere prospettata, in un caso così complesso solo dai sanitari del reparto di pediatria in concerto con gli internisti, che si avvalevano di due consulenze infettivologiche, che varin presenza di una malformazione alla base del quadro polmonare e in presenza di un quadro clinico di chiara infezione polmonare che non recedeva dopo oltre un mese di terapia antibiotica.
Come si è già avuto modo di rilevare, in tema di colpa medica, in caso di lavoro in “equipe” e, più in generale, di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico-chirurgica, l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta ed al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare aprioristicamente una responsabilità di gruppo, in quanto il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenza scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell’intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell’affidamento per cui può rispondere dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui.
Conclusioni
La responsabilità penale di ciascun componente di una “equipe” medica per il decesso del paziente sottoposto ad intervento chirurgico non può essere affermata sulla base dell’accertamento di un errore diagnostico genericamente attribuito alla “equipe” nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, nella prospettiva di verifica, in concreto, dei limiti oltre che del suo operato, anche di quello degli altri.
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